HIV/AIDS 2.0 Profezia di un’evoluzione possibile

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A cura di Caterina Pellegris

 

HIV-AIDS 2.0

Nell’ambito delle iniziative del 1 dicembre 2015, Giornata mondiale della lotta all’AIDS,  a Bergamo è stato presentato libro intitolato HIV/AIDS Profezia di un’evoluzione possibile, scritto dalla Dott.ssa Claudia Turrisi. La pubblicazione è frutto di un lavoro di ricerca che Claudia ha portato avanti per la sua tesi, e che ci ha coinvolti come associazione nel tentativo di rielaborare la storia di questa infezione e di provare a delineare delle ipotesi di futuro possibile, un’evoluzione che vada nella direzione di ben-essere per tutti. Ora tocca a noi intervistare l’autrice  e provare con lei a capire a quali conclusioni è arrivata con la sua ricerca.

 

 

Ciao Claudia, tu hai deciso di dedicare il tuo progetto di tirocinio e di tesi all’HIV, in un periodo storico in cui la società, ma anche il mondo accademico delle università umanistiche non sembra mostrare grande interesse. Cosa ti ha spinto verso questa scelta?

Mi hanno spinta gli stessi motivi per cui a 32 anni ho deciso di iscrivermi a Scienze dell’Educazione pur avendo già in mano una professione in tutt’altro ambito: una grande passione nata negli anni di volontariato presso due strutture che ospitano persone con HIV/AIDS, e la netta sensazione che questo tema, ignorato ormai da anni, meritasse attenzione e dedizione particolari, per tornare a riflettere su una serie di questioni che questo tipo di malattia sottolinea con forza. Quando poi mi sono immersa nei dati epidemiologici e ho capito che, nonostante gli straordinari traguardi scientifici della ricerca medica, le previsioni per il futuro non sono tanto rosee per quanto riguarda il numero delle nuove infezioni in Italia, ho avuto la conferma che la mia sensazione avesse un fondamento reale.

HIV/AIDS 2.0 è frutto di una ricerca basata sull’incontro con molte persone che si sono rese disponibili a comunicare, a condividere la loro esperienza. “Vale sicuramente la pena di ripercorrere dentro le esperienze di cura e di “non cura” delle persone intervistate, dentro le narrazioni di vita vera e vissuta in prima persona, cosa significhi oggi vivere con l’HIV”.  Emerge nelle pagine del libro un profondo rispetto per le biografie e le persone che hai intervistato. Come è stato entrare in relazione e porsi all’ascolto di storie molto diverse tra loro?

È stata un¹esperienza straordinaria. Tornavo a casa ogni volta sorpresa e commossa dalla grande generosità delle persone intervistate. Siamo riusciti ad entrare in una profondità e una sintonia che non sono per nulla scontati fra sconosciuti. Io non mi sentivo né preparata, né tantomeno all’altezza di una simile esperienza, ma strada facendo, intervista dopo intervista, capivo che il mio solo compito era quello di fare spazio dentro di me a  queste storie, a questi miracoli di condivisione. Dovevo raccogliere e accogliere con il massimo rispetto le esperienze di vita a contatto con una malattia per molti versi oggi paragonabile a tante altre malattie croniche, ma con implicazioni psicologiche, sociali e soprattutto relazionali molto diverse dalle altre. Ho avvertito chiaramente il privilegio di poter ascoltare testimonianze così preziose e dentro di me è cresciuta sempre più l’urgenza di raccontarle, perché non restassero solo un grande dono che la vita aveva voluto farmi, ma perché diventassero un dono per tutti. Quando poi qualcuno ti dice

“grazie, in tutti questi anni non avevo mai tirato fuori tutto questo, ne avevo bisogno”

beh, allora capisci che il tuo sforzo, la tua fatica insieme a quella dell’altro di vivere e superare l’incomunicabilità del dolore sono un inno alla vita che deve venire allo scoperto. Deve vedere la luce del sole.

Tra gli intervistati, molti sono infettivologi. Con loro hai più volte affrontato il tema del ruolo del medico e di come la vicenda dell’HIV, dagli esordi tragici alle sue evoluzioni più recenti, abbia sollecitato una riflessione profonda sulle modalità con cui svolgere la professione di medico.  Queste riflessioni però ci pare siano rimaste chiuse tra le pareti degli studi di qualche infettivologo, no?

Ho incontrato cinque medici e un’infermiera. Tranne una dottoressa infettivologa, tutti gli altri arrivavano dai primi tempi del manifestarsi della malattia in Italia. Sono persone che si sono trovate a dover gestire una malattia devastante e mortale senza avere nessun tipo di strumento in mano, se non la propria dedizione e la propria umanità. Hanno visto morire un numero altissimo di coetanei che si spegnevano davanti ai loro occhi, senza poter far altro che tentare di alleviare, qualcuno ha usato l’espressione “tamponare” la loro sofferenza fisica e morale. Sono medici e infermieri che hanno dovuto misurarsi con la propria impotenza. Cito Giovanni Gaiera, infettivologo al San Raffaele, presidente CICA (coordinamento Italiano Case Alloggio) e responsabile insieme alla moglie di Casa Iris (struttura che ospita persone con HIV/AIDS) :

“Chi ha vissuto un po’ come abbiam fatto noi, che continuo a dire, probabilmente siamo stati i medici, il personale sanitario che dalla Seconda Guerra Mondiale ha visto morire in meno tempo più gente giovane, è stato formato in maniera potente, non solo e non principalmente riguardo alle competenze professionali, ma facendoci avere uno sguardo diverso proprio sulla relazione di cura”.

Oggi la situazione è molto cambiata, i traguardi delle terapie farmacologiche consentono di vivere una vita integrata nella società, di avere figli sani, di pensare al futuro, ma dalle parole dei pazienti intervistati emerge molto chiaramente quanto sia ancora fondamentale il tipo di approccio del medico. Quanto la considerazione di aspetti che vanno al di là e oltre la diagnosi e la terapia possano cambiare il percorso di una persona che contrae l’infezione da HIV oggi. Certo, come in ogni altra malattia di una certa entità, ma in questo caso ancor di più, perché succede spesso che il medico infettivologo sia depositario, specialmente nei primi tempi, del segreto di una malattia considerata ancora “indicibile” in molti contesti. Il coinvolgimento umano del medico, l’accompagnamento, la capacità di creare una rete di sostegno attorno alla persona (se necessario) risultano vitali. Da questo punto di vista, l’esempio di alcuni medici nella gestione della relazione con il paziente HIV-positivo è senz’altro paradigmatica e credo tracci delle “linee guida” preziose per tutto il resto della classe medica generale. È un peccato che questo grande lavoro di medici e personale infermieristico rimanga isolato e chiuso dentro le mura degli ospedali.

La comunicazione è un nodo centrale nella vicenda dell’HIV e quindi nel tuo libro: comunicare la diagnosi, comunicare la propria HIV-positività… ma tu parli di mutilazione della comunicazione. Cosa intendi?

Ogni dimensione della comunicazione sembra essere molto difficoltosa quando si parla di HIV, per certi versi addirittura impossibile, meglio interromperla completamente o non affrontarla affatto. La maggioranza della popolazione non contempla l’esistenza dell’infezione da HIV o per lo meno non crede sia un problema che riguarda persone “normali”, si pensa sia una malattia ormai presente in altri paesi, non qui da noi. Al di fuori degli ambiti sanitari specifici nessuno sa nulla delle straordinarie possibilità terapeutiche rese possibili dalla ricerca scientifica. Molte persone non sanno nemmeno la differenza tra HIV e AIDS. Chi ha vissuto il martellamento mediatico degli anni ottanta e novanta sa che esiste l’HIV, ma fare il test è un’idea che terrorizza e si rimanda a tempo indeterminato. Si preferisce ignorare, non sapere. Una percentuale abbastanza rilevante di persone che fa il test perché è consapevole di aver avuto comportamenti a rischio, alla comunicazione della diagnosi rimane comunque travolta da un trauma: “è impossibile – mi dicevo -non ci potevo credere. Volevo morire”. Il medico di base non propone il test, quelli che lo fanno sono mosche bianche.

Ancora oggi, non sempre, ma in molti casi, comunicare il proprio stato sierologico quando è HIV-positivo genera paura, angoscia, vergogna, timore del giudizio, dell’abbandono, della solitudine, a volte la percezione di un senso di colpa soffocante.

sono le emozioni più frequenti nelle interviste quando si è parlato di comunicazione della diagnosi, sia nel darla che nel riceverla. Anche comunicarlo a se stessi, dire “io sono una persona HIV-positiva” non è facile perché implica tutta una serie di altre accettazioni che vanno al di là della malattia. Accettazioni, comprensioni, consapevolezze che riguardano la sfera delle relazioni, a volte sono le relazioni più strette e importanti ad essere messe a dura prova dalla comunicazione della diagnosi di infezione da HIV. Ecco perché parlo di mutilazione della comunicazione, perché se ci si pensa bene si tratta di un’interruzione a trecentosessanta gradi: a livello intimo, privato, sociale, collettivo, politico. Questo silenzio anche a livello sociale e politico non fa altro che alimentare un circolo vizioso di ignoranza e disattenzione. Fanno clamore solo le sporadiche uscite giornalistiche e televisive che parlano di HIV in toni scandalistici, senza rendere giustizia né alla complessità né tanto meno alla realtà della situazione attuale relativa all¹HIV in Italia. Purtroppo a pagarne le conseguenze sono le nostre relazioni e soprattutto le nostre relazioni d’amore nel senso più
lato del termine.

Nel tuo libro ricorre spesso il concetto che l’HIV rappresenta una grande sfida, sia  di tipo culturale, che etico, sia  pedagogico che psicologico,
sia umano che sociale. Ci spieghi meglio cosa significa?

Io credo che l’HIV rappresenti una grande sfida per l’uomo contemporaneo in generale. L’HIV oggi ci invita ad uscire dal nostro individualismo
esasperato, ci dice che

“prenderci cura di noi stessi e contemporaneamente dell’altro” è un imperativo categorico. Ci dice che responsabilità e libertà devono andare avanti di pari passo, altrimenti è un guaio. Ci dice che prendersi profondamente cura delle relazioni non può essere marginale nella convivenza sociale.

Ci dice che la mercificazione dei corpi può essere un gioco mortale. La vita delle persone che vivono con l’HIV è circondata tutt’oggi dal nascondimento nella maggior parte dei casi. E questa esperienza che prova a trasformare la paura in coraggio, l’odio in perdono, che prova a vivere dentro l’incertezza continua, a volte lacerante fra l’idea della vita e della morte, un’esperienza che in alcune storie mette in discussione le proprie certezze, la propria fiducia nei legami, nella propria relazione d’amore e nelle proprie relazioni in generale. Questa esperienza che davvero in alcuni casi rende professionisti del vivere al limite, dentro il limite, imparando a integrare la vulnerabilità nella propria vita, non ha voce. Non viene raccontata e non entra nella storia. E questo è un grande peccato perché lascia un vuoto incolmabile. Stiamo impedendo alle donne e agli uomini, alla nostra umanità di accogliere un’occasione, una sfida, che è una chiamata ad ascoltare una risposta plurale, io dico – dall’alto della malattia vissuta – . È una possibilità sprecata. Sarebbe un’occasione persa come dice Paolo Meli continuare a ignorarla. Ma siamo ancora in tempo. Questa possibilità, che è una seconda possibilità di vita, deve essere aperta. Perché significa aprire una seconda possibilità per chi vive con la malattia, ma significa anche aprire una seconda possibilità per chi il virus non ce l’ha.

Per vivere meglio, per vivere più accorti, per vivere amando di più e amando meglio la vita, per fare meglio l’amore, per dare più spazio alla tenerezza e alla cura delle relazioni.

L¹infezione da HIV ci chiede di aderire a un passaggio di civiltà: pensare a un futuro desiderabile senza rimanere schiacciati dalla paura diventa possibile se diventiamo consapevoli dell’importanza e del valore da attribuire alla reciprocità della cura, dentro una “veglia reciproca”, termine che mutuo dal mio professore, Ivo Lizzola, che diventa patrimonio genetico di un’evoluzione possibile.

2 responses to “HIV/AIDS 2.0 Profezia di un’evoluzione possibile

    1. Lo sappiamo purtroppo. Sappiamo quanto ancora stigma e pregiudizio siano radicati nella testa delle persone, che non hanno affrontato la paura di questa infezione e hanno preso scorciatoie “comode” per allontanare il pensiero. Ma così facendo feriscono gli altri e rischiano molto anche per se stessi. proteggersi attraverso le lenti del pregiudizio non funziona ed è assai pericoloso.

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