Una figlia adolescente, un’infezione difficile
Storia di una comunicazione possibile

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A cura di Paolo Meli

 

Una mamma adottiva di una ragazzina con HIV ha voluto condividere la sua storia con noi, soprattutto il capitolo più recente della loro biografia famigliare, che li ha visti affrontare con la figlia preadolescente il tema della sua infezione. Non è mai facile questo passaggio e la loro esperienza traccia linee di una comunicazione possibile ed efficace.

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Abbiamo deciso di adottare un bambino quando i medici ci hanno fatto capire che non sarei riuscita ad avere figli. Insieme abbiamo deciso di non porre vincoli e di accettare qualsiasi bimbo che avesse bisogno di noi, proprio come avremmo accettato qualsiasi problematica dei nostri figli naturali “mancati”.

Non abbiamo dovuto attendere molti anni, ed è arrivata Gioia che ha riempito la nostra vita con la sua dolcezza e la sua fragilità. Gioia ha l’HIV, l’ha preso dalla sua mamma che non si era accorta di essere incinta e quindi che non ha seguito i protocolli di cura che già 12 anni fa avrebbero impedito il passaggio dell’infezione. Una biografia complicata quella della mamma di cui noi però sappiamo poco o nulla. Sappiamo che non ha abbandonato Gioia a cuor leggero, che ha scelto di farla adottare ad una famiglia perché le avrebbe dato opportunità che lei non era in grado di offrirle, un gesto d’amore che ho sempre tentato di spiegare a mia figlia perché capisca quanto bene le ha voluto anche la sua mamma biologica, perché non si senta mai abbandonata. Ma Gioia non mi permette di andare in profondità su questo argomento, per ora non è pronta ad affrontarlo e noi rispettiamo i suoi tempi.

Nel frattempo, è nata una sorellina, come a volte succede i medici erano stati troppo trancianti nella loro diagnosi. Gioia ne è stata da subito felice, aveva 8 anni e si è sentita una sorta di vice-mamma. Mi ha sempre aiutato nella gestione quotidiana di Serena ed è molto protettiva nei suoi confronti.

Gioia sta diventando grande, frequenta le scuole medie ormai. Quest’inverno ha affrontato a scuola l’argomento AIDS durante un corso di educazione all’affettività, ce l’ho riportato a casa dimostrando di esserne rimasta particolarmente colpita. Infatti, nel corso delle settimane e dei mesi successivi è tornata più e più volte sul tema, facendo domande del tipo: “Ma se la mia professoressa fosse malata di AIDS?” Io e mio marito abbiamo creduto che queste continue domande fossero il suo modo per farci sapere che aveva già capito tutto, che voleva affrontare l’argomento, che si sentiva pronta. Ma noi lo eravamo? Sapevamo che sarebbe arrivato questo momento, ci stavamo preparando da tempo, ma ci abbiamo messo un po’ a prendere il coraggio, abbiamo pensato e ripensato a come impostare il discorso.  Dopotutto si trattava solo di dare un nome e un cognome al problema sanitario con cui lei convive da quando è nata. Non le abbiamo mai detto bugie, solo verità adatte ad una bambina. “Mamma, ma perché io devo prendere le medicine tutti i giorni?” è una domanda che ci ha fatto spesso. Su consiglio dei medici, abbiamo usato la metafora dei carrarmati e delle munizioni: “Quando sei nata, abbiamo scoperto che i tuoi carrarmati sono deboli, che non hanno tante munizioni per sparare alle malattie cattive, lo sciroppo ti aiuta a rinforzarli così non ti ammali”. Nel tempo, questa versione dell’infezione è stata arricchita, fino a dirle che nel suo sangue c’era qualcosa che mangiava le munizioni dei carrarmati, perciò doveva tutti giorni assumere la terapia per rifornire le sue difese immunitarie… Mancava appunto solo nominare le cose con il loro nome!

E così una di queste sere d’estate, dopo aver messo a letto la sorellina piccola, l’abbiamo “convocata” sul divano. E con molta semplicità, senza tanti giri di parole le abbiamo detto che ciò che “minaccia” il suo sistema immunitario è l’HIV.

Il suo sguardo stupito e terrorizzato ci ha fatto pensare che forse ci eravamo sbagliati di grosso, forse non c’era arrivata da sola. Per lei è sembrato uno shock, anche se non possiamo escludere che ad un livello più profondo avesse compreso ma probabilmente era qualcosa di troppo difficile da affrontare da sola. Gli occhi le si sono riempiti di lacrime, faticava a respirare e la sua prima domanda è stata: “Allora devo morire? Ho l’AIDS?”.

Credo sia stato uno dei momenti più difficili della mia vita, ci siamo abbracciati a lungo tutti e tre per rassicurarla fisicamente, non solo a parole, per contenere il suo sgomento e la sua ansia.

Le abbiamo spiegato bene la differenza tra infezione e malattia, sappiamo che a scuola non hanno affrontato l’argomento con un approccio del tutto corretto. Poi l’abbiamo invitata a riflettere sul suo stato di salute: è una ragazzina piena di energia, un po’ un maschiaccio, fa molto sport ed è sempre in movimento. Ha sperimentato tutto ciò che ha voluto, dall’arrampicata all’equitazione, non si può dire certo che l’abbiamo cresciuta sotto una campana di vetro. Abbiamo sempre resistito alla tentazione di proteggerla troppo, di farci influenzare nelle scelte dalla presenza dell’infezione. E così gliel’abbiamo presentata:

“è un virus, lo tieni sotto controllo benissimo con le medicine, anzi lo stai battendo alla grande –ha la viremia non rilevabile da anni– tutto ciò di cui ti devi preoccupare è di ricordarti le pastiglie tutti i giorni. Per il resto puoi fare qualsiasi cosa. Non devi aver paura, non l’abbiamo noi per te. Ti sembriamo in ansia?”

Ecco forse è stata questa nostra tranquillità l’arma vincente: “ma se fossi pericolosa per gli altri, ti avremmo messo in braccio tua sorella a poche ore dalla sua nascita?” Sono cresciute insieme, con tutta l’intimità che c’è tra due sorelle: stoviglie ampiamente intercambiabili, bagnetto insieme, spesso condivisione dello stesso letto. Più di una volta, ricordo distintamente che Serena l’ha morsicata… e allora? Non c’è alcun rischio, la sorellina è e rimarrà negativa. Ha capito subito questo concetto, poi abbiamo aggiunto le spiegazioni scientifiche, ma più di tutto penso sia valso l’esempio.

La domanda “Come l’ho preso?” è arrivata ed è stata subito archiviata da Gioia stessa, significava dover approfondire la questione della sua mamma biologica. Sarà probabilmente il prossimo capitolo da affrontare, ma ci farà capire lei quando sarà pronta.

Per ora, dopo aver capito e assimilato abbastanza velocemente che non morirà e che la sua situazione sanitaria è ottima, si concentra sul capire come gestire la comunicazione. Da quando le abbiamo parlato, vuole sapere chi sa della sua infezione tra le persone che frequentano la famiglia. Vuole capire con che criterio noi abbiamo scelto di dire o non dire della sua infezione, ne ha bisogno per costruirsi una sua strategia.

Ho sempre pensato che questo aspetto sarebbe stato uno scoglio tra i più difficili da gestire nel momento della comunicazione. Le diciamo che non si deve preoccupare, che non è malata, che ha solo un’infezione che può gestire tranquillamente, che non si deve vergognare e che non è pericolosa per nessuno nella quotidianità. Da qualche tempo, possiamo anche dirle avendo la viremia azzerata, che non è praticamente contagiosa eppure… eppure le abbiamo dovuto anche far capire che sarebbe meglio non condividere questa cosa con le sue migliori amiche, che è un segreto che deve custodire con attenzione, le facciamo prendere le medicine di nascosto: quando è andata in gita con l’oratorio un paio di giorni, le abbiamo fatto nascondere le terapie nel sottofondo della valigia.

Cosa passa nella testa di mia figlia in questo momento?

“Ma se non mi devo preoccupare di nulla e nemmeno vergognarmi, perché devo nascondermi?”

È la grande contraddizione di questa infezione: pregiudizio, condanna, senso di vergogna e senso di colpa avvolgono le persone con HIV, che scelgono di nascondersi. Non dovrebbe essere così, non è giusto, ma anche io ho consigliato a mia figlia di stare molto attenta alla sua privacy, di conservare gelosamente questa informazione, maturando però la consapevolezza che ciò dipende non da qualcosa di sbagliato in lei, ma da una conoscenza scarsa e deformata da parte degli altri.

Non sta ancora a Gioia e alla sua famiglia combattere la battaglia contro stigma e ignoranza, non ora e non oggi. Tocca a noi, associazioni e istituzioni, cercare di sfondare il muro dell’indifferenza perché tutti coloro che hanno l’HIV possano vivere senza l’incubo di doversi nascondere, senza sentire un senso di colpa che è assurdo e ingiustificato.

NdA: i nomi usati nell’articolo sono di fantasia per mantenere la privacy della famiglia

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