L’assunzione di terapia e il benessere di una persona con HIV

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A cura di Paolo Meli

Il 5 e 6 ottobre si è svolto un workshop a Roma sul tema del ruolo delle organizzazioni non profit e delle associazioni nella RETENTION IN CARE. Una ricerca che ha coinvolto la maggior parte delle organizzazioni attive in Italia, tra cui circa 35 case alloggio per persone con HIV/AIDS, e un questionario somministrato a pazienti, medici ed infermieri di alcuni importanti centri ospedalieri italiani hanno cercato di far luce sui bisogni delle persone con HIV di vecchia e recente diagnosi e sulle azioni sviluppate dall’associazionismo a sostegno dell’adesione alla terapia.

seminario-retentionSecondo il comunicato dell’Istituto Superiore di Sanità in occasione della giornata mondiale di lotta all’AIDS 2015, il numero di nuove infezioni da HIV è stabile, come pure quello dei casi di AIDS. Il virus colpisce più gli uomini che le donne e i giovani tra i 25 e i 29 anni. Le modalità di trasmissione sono rappresentate nell’84% dei casi da rapporti sessuali senza preservativo sia tra eterosessuali che tra maschi che fanno sesso con maschi. Nel 2014 -ultimo dato disponibile-  in Italia 3.695 persone hanno scoperto di essere HIV positive, un’incidenza pari a 6,1 nuovi casi di infezione ogni 100 mila residenti. Il 27,1% delle persone diagnosticate come HIV positive è di nazionalità straniera. Tra gli stranieri, la quota maggiore di casi è costituita da eterosessuali femmine (36%), seguita dal 27% di eterosessuali maschi, mentre tra gli italiani la proporzione maggiore è quella dei maschi che fanno sesso con maschi (49%), seguita dal 26% di eterosessuali maschi.

Sempre nel 2014, il 53,4% delle persone con una nuova diagnosi di infezione da HIV è stato diagnosticato con un numero di linfociti CD4 inferiore a 350cell/μL e, quindi, si tratta di diagnosi tardive rispetto al momento dell’infezione.

Conseguentemente, aumenta il numero totale di persone che vivono con l’HIV in Itaalia, stimato attorno alle 110.000-130.000 persone, anche in relazione all’efficacia delle terapie che garantiscono la sopravvivenza se assunte precocemente (appena si scopre l’infezione secondo le prassi più recenti) e con regolarità.

La maggior parte dei pazienti (9 su 10) è seguita presso i centri clinici di malattie infettive ed è sottoposta a terapia antiretrovirale.

Ma qual è la qualità della vita a fronte di questo apparentemente elevato tasso di adesione alla proposta terapeutica? Come vivono realmente il percorso terapeutico le persone con HIV? Come vive il proprio stato chi ha l’HIV da molti anni rispetto a chi scopre l’infezione spesso improvvisamente ed inaspettatamente?

La semplice assunzione di terapie basta a definire lo stato di benessere, inteso in senso ampio, della persona con HIV?

E la percentuale di persone che escono dai percorsi terapeutici (come minimo 1 su 10 senza contare chi non vi ha accesso perché non ancora diagnosticato) da chi è composta e che fine fa?

Entreremo nel merito dei dati concreti derivanti dalla ricerca citata non appena saranno disponibili ufficialmente al di là delle anticipazioni comunicate nel workshop; la presente riflessione verte sul fatto che non è semplice dare una risposta esaustiva a queste domande e, a seconda dei punti di vista e dei ruoli, possono emergere visoni differenti.

Dal nostro punto di vista, le questioni legate all’HIV/AIDS restano complesse: il confronto con il limite e la fragilità umana, la paura della sofferenza e della morte, il tema della diversità, le implicazioni nella sfera della sessualità e dell’affettività, il senso di colpa e la vergogna, il giudizio e il pregiudizio che accompagnano spesso le storie delle persone con HIV.

non c'è peggior ciecoL’AIDS è diventata una malattia “invisibile” poiché di fatto può esserlo a lungo e comunque si preferisce non “vederla”: si evita di fare il test, di mettere in discussione i propri comportamenti a rischio e i propri agiti. Rimane una malattia molto difficile da accettare a livello psicologico e pratico e per molti, ne siamo convinti sulla base dell’esperienza di vicinanza e di ascolto condotta negli anni, è comunque faticoso aderire serenamente ai protocolli terapeutici. Sovente non si può o non la si vuole raccontare: diventa un segreto, talvolta indicibile anche ai propri familiari e alle persone più vicine. La conoscenza della malattia, in realtà, è rimasta superficiale e, purtroppo, sono ancora frequenti, anche se meno eclatanti, le situazioni di pregiudizio che possono generare forme di discriminazione ed esclusione sociale.

La semplice adesione costante alle terapie non è automaticamente indice di serenità e benessere psicologico oltre che fisico.

Citando il prof. Ivo Lizzola e un suo intervento nel corso di un convegno organizzato a Bergamo il 1 dicembre 2014: “Tu quando comunichi una diagnosi, lo si dice anche nel linguaggio comune, è come se rendessi evidente una condanna ……mentre per la maggior parte delle altre malattie questa è vissuta come un’ingiustizia, la malattia è ingiusta e la domanda è perché, qui il rischio è il perché te la sei cercata, il perché non sei stato attento, il perché sei colpevole di comportamenti sanzionabili socialmente ed eticamente.

Qui purtroppo il perché c’è e quindi la malattia continua ad essere elaborata come pena che fa riferimento ad una colpa. Altro che condivisione della malattia, condivisione della malattia significa uscire da questo meccanismo perverso”.

Le associazioni svolgono sicuramente un ruolo importante nel dare sostegno attraverso spazi di ascolto, counselling e gruppi di autoaiuto, ma raggiungono, come emergerebbe anche dalla ricerca, un numero limitato di persone. D’altra parte, le associazioni non sono presenti in tutti i centri ospedalieri e non sempre hanno a disposizione le risorse necessarie per sviluppare e mantenere i servizi e le azioni necessarie.

Ma bisogna anche chiedersi che risposta riescono a dare le strutture ospedaliere e il personale sanitario laddove prevalgono tagli, riduzioni dei tempi a disposizione per visite e controlli, introduzione di modalità organizzative che non danno spazio a rapporti individualizzati medico-paziente e sistemi che spersonalizzano e danno poco spazio alle dimensioni emotive e psicologiche legate alla malattia.

La questione è resa ancor più complessa dalla diversificazione dei bisogni tra persone di vecchia diagnosi, persone di nuova diagnosi, msm, uomini e donne eterosessuali, stranieri di diversa etnia, persone di età molto varia, persone in condizioni di particolare fragilità sociale.

Dal nostro punto di vista, occorrerebbe rivedere il sistema di risposta integrato tra servizio sanitario pubblico e organizzazioni non profit, creando un raccordo stabile e garantendo le risorse necessarie a strutturare servizi che offrano spazi di ascolto e supporto visibili, con un’attenzione particolare all’accoglienza delle persone di nuova diagnosi. Il tema della sostenibilità economica è centrale, servirebbero visioni lungimiranti capaci di intuire che investire maggiori risorse oggi porterebbe a risparmi complessivi domani.

 

4 responses to “L’assunzione di terapia e il benessere di una persona con HIV

  1. Ho una domanda specifica che mi è sorta stamatt seguendo una lezione universitaria! Il mio prof ha detto che ,dopo un bel po”di tempo che le persone sieropositive si sottopongono alle cure antiretrovirali,il virus si arresta e addirittura risultando negativi ai classici test dell’hiv!la mia domanda è, se risultano negativi, allora di conseguenza non possono più trasmettere il virus!giusto? Altrimenti ci sarebbero persone che,pur essendo sieropositive e quindi capaci a contagiare,possono comunque trasmettere la malattia!grazie mille

      1. Quando la terapia antiretrovirale funziona, la persona con HIV ha una carica virale, cioè una quantità di virus nel sangue, non rilevabile, si dice “Undetectable”. L’esame che misura questo valore si chiama viremia ed è quello a cui si riferiva il tuo professore. Il test dell’HIV a cui invece probabilmente ti riferisci tu, quello che si fa per scoprire se ci si è infettati, ricerca gli anticorpi prodotti dal virus dell’HIV. Se risultato positivo, la persona viene inserita nei programmi di cura e monitoraggio che non prevedono più questo tipo di test. Ma anche se fosse necessario sottoporsi nuovamente a questo esame, risulterebbe positivo anche durante la terapia antiretrovirale.
        Ti dirò di più: è ormai scientificamente assodato che le persone con HIV in terapia antiretrovirale che raggiungono il traguardo della viremia non rilevabile, abbattono quasi a zero la possibilità di contagiare qualcun altro, non essendoci nei liquidi biologici presenza significativa di virus. Questo è un grande risultato della medicina recente, sia dal punto di vista della cura e quindi dell’aspettativa di vita delle persone con HIV, ma anche dal punto di vista della prevenzione.
        Spero di averti chiarito tutti i dubbi, altrimenti puoi contattarci attraverso il nostro servizio di CHIEDIRISPONDO che trovi in alto a sinistra sulle pagine del sito.

        1. È stata chiarissima ed esaustiva ,il mio professore invece è stato poco chiaro nella spiegazione! Purtroppo sono una persona che ha sviluppato un’ipocondria relativa soprattutto a questa malattia e faccio sottoporre a test i miei partner (ovviamente stabili) prima di consumare rapporti sessuali non protetti (considerando i periodi finestra ovviamente ). Credo che questa sia una buona abitudine nel momento in cui si intraprende una relazione duratura e si vuole fare a meno del preservativo (se per esempio si desidera una gravidanza o semplicemente si vuole fare a meno di esso ). Grazie mille e buon lavoro

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