Addio al regista di Philadelphia

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Ieri è morto Jonathan Demme, regista americano raffinato ed intenso, eclettico, premio Oscar per Il silenzio degli Innocenti, ma che vogliamo ricordare soprattutto per Philadelphia.Philadelphia-poster

Era il 1993, eravamo ancora in piena emergenza, senza una cura efficace e senza antidoti contro la paura e il pregiudizio. Qualche anno prima, avevamo aperto Casa San Michele, la nostra casa alloggio sui colli di Città Alta, e l’avevamo fatto in silenzio, per evitare contestazioni che altrove avevano accompagnato il nascere di queste strutture che avevano la missione di accompagnare ad una “buona” morte i ragazzi spesso abbandonati dalle loro famiglie anche nel viaggio finale. L’AIDS riusciva anche in questo: togliere ad una persona la  dignità di andarsene, sistemando i propri “conti”, circondato dagli affetti.

In Philadelphia, non è così. Andrew muore riuscendo a mettere tutte le cose apposto, addirittura vincendo la causa per licenziamento ingiusto contro i suoi vecchi datori di lavoro. Se ne va, circondato dall’affetto della sua famiglia, che mai l’ha abbandonato e l’ha sostenuto anche durante la battaglia legale, stretto nell’abbraccio del compagno che gli è sempre stato accanto.

Sappiamo tutti che non è andata così per molti dei ragazzi morti di AIDS in quel periodo, ma proprio per questo abbiamo amato visceralmente questo film: ha mostrato che si può vivere nonostante la malattia, intensamente fino alla fine, attaccandosi alla vita, accettandone fino in fondo i suoi limiti e lasciando un segno nel mondo.

Philadelphia è un film contro tutti i pregiudizi: la metamorfosi dell’avvocato Miller, magistralmente interpretato da Denzel Washington, omofobo e terrorizzato dalla malattia, passa attraverso la progressiva consapevolezza, che più di ogni altra cosa, conta la persona.philadelphia-header

Quando Miller capisce di aver davanti a sè un malato di AIDS, guarda con terrore ad ogni suo gesto, ad ogni tocco, dimentico di aver di fronte l’avvocato che tanto aveva ammirato nei mesi prima. Arriva addirittura a telefonare al proprio medico per assicurarsi di non aver contratto il virus.  Con il tempo, capirà che Andrew è una brava persona, un grande avvocato, un figlio premuroso, un amico attento ed è questo ciò che conta.

Questa è l’essenza della discriminazione: il formulare opinioni sugli altri non basate sui loro meriti individuali, quanto alla loro appartenenza ad un gruppo con presunte caratteristiche (Joe Miller)

Philadelphia rimane ancora oggi un film “pedagogico”, il suo messaggio resiste nonostante molto sia cambiato, soprattutto dal punto di vista sanitario. Assistiamo tutt’oggi a situazioni di discriminazione legate alla paura dell’HIV, che diventa l’unica cosa “visibile” dell’altro quando salta fuori. Il concetto di “morte sociale… che precede anzi accelera la morte fisica” ha ancora senso: le terapie permettono di avere prospettive di vita ormai del tutto assimilabili a quelle di chi non è infetto. È necessario però che anche la società conceda le stesse possibilità e su questo c’è ancora molta strada da fare. In un recente sondaggio di Caritas Italiana è emerso chiaramente che le persone hanno ancora molti pregiudizi verso chi ha l’HIV, come evidenzia la risposta negativa di troppi alla domanda se possa essere opportuno che una persona con HIV lavori coi bambini.

Abbiamo usato Philadelphia molte volte, nel corso di percorsi di sensibilizzazione e formazione sul tema HIV/AIDS, con ragazzi e giovani in scuole ed oratori, ancora oggi capita di proporlo riscontrando sempre emozione e suscitando riflessioni profonde sul tema dell’HIV e del pregiudizio.

La colonna sonora del nostro impegno in tutti questi anni a fianco delle persone con HIV è indubbiamente Street of Philadelphia di Bruce Springsteen, che fa parte delle bellissime liriche musicali che accompagnano le scene del film e che ci fa pensare ai molti volti, alle storie e alle testimonianze dei tanti amici incontrati ed accompagnati per un tratto difficile della loro vita.

Da loro abbiamo imparato ad amare le piccole cose della vita, a godere pienamente delle relazioni e a lottare per una società inclusiva e capace di rispetto e solidarietà.

Grazie Jonathan per aver saputo dare voce e dignità ad una battaglia culturale e sociale che, ancora oggi, necessita di risorse, progettualità ed impegno.

 

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