Piano Nazionale AIDS: novità e prospettive

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A cura di Caterina Pellegris

A fine ottobre, la conferenza Stato-Regioni ha approvato il Piano nazionale di interventi contro HIV e AIDS(PNAIDS).

A 25 anni dall’approvazione della legge 135/90 e ad oltre 15 anni dal precedente Progetto Obiettivo AIDS 1998-2000, era necessario ripensare il sistema e le priorità di intervento per arginare e affrontare l’epidemia di HIV alla luce dei cambiamenti e delle evidenze scientifiche che sono maturate nell’ultimo periodo.

Non voglio descrivere il piano nei suoi dettagli, consiglio chi ne fosse interessato a leggerselo per intero scaricandolo qui, vorrei solo commentare alcuni degli aspetti che ritengo più significativi.

Mi imbatto nella prima scheda e significativamente vi leggo che non ne sappiamo abbastanza: non abbiamo abbastanza dati per ritenere di conoscere tutti gli aspetti salienti di questa situazione. Il PNAIDS si propone dunque di migliorare la banca dati nazionale, carente rispetto a diversi aspetti mettendo a punto delle schede per la raccolta delle informazioni necessarie, a cui dovranno attenersi tutti i centri dove si fa test, diagnosi e cura dell’HIV. Conoscere il fenomeno permette di programmare interventi più efficaci e mirati.  Quante volte ci siamo chiesti se le campagne organizzate intorno al primo dicembre finalizzate, per esempio, ad aumentare l’accesso al test avevano funzionato? Nella nostra realtà provinciale, ma francamente credo nemmeno altrove, il dato del numero di test eseguiti non è mai messo a disposizione. Per certi aspetti, viaggiamo alla cieca! Ben venga l’indicazione di raccogliere e comunicare i dati sui test effettuati e sui risultati.

Nella parte sulla prevenzione due cose mi balzano all’occhio: il concetto di continuità e l’accenno alla discriminazione e allo stigma.

Il PNAIDS riconosce il valore di quanto fatto finora in termini di prevenzione, soprattutto dalle associazioni che negli anni se ne sono occupate. La criticità sta proprio nel carattere di intermittenza di questi interventi e nella mancanza di linee guida e di una politica comune. Sappiamo di esperienze davvero efficaci di prevenzione, sparse a singhiozzo lungo tutto lo stivale, ma che rischiano di essere fini a sé stesse, sperperando il capitale accumulato perché isolate ed occasionali. Se pensiamo in particolare alla scuola, la prevenzione deve essere fatta “tutti i giorni”, deve diventare parte dei curricula degli studenti e ricorrere nei programmi di studio. Naturalmente servono risorse per costruire un sistema di prevenzione che funzioni davvero.

Il riferimento anche alla questione dello stigma e del pregiudizio nel capitolo dedicato alla prevenzione è importante. Da sempre, come Associazione Comunità Emmaus, abbiamo impostato i nostri percorsi formativi sul concetto che prevenzione e lotta allo stigma sono le facce di una stessa medaglia. Se imparo a proteggermi dall’infezione, non dovrei più aver bisogno di discriminare chi ha l’HIV; viceversa se riesco a liberarmi dei pregiudizi e dei falsi miti che ci sono attorno all’HIV, sarò in grado di proteggermi con maggiore efficacia. Il tutto è sintetizzato nello slogan che ripetiamo in continuazione: non importa sapere CHI, importa sapere COME.

E qui faccio un affondo su un particolare target per cui si raccomanda una formazione specifica: il settore socio-sanitario. Quante delle persone con HIV ci hanno raccontato di piccole e grandi discriminazioni subite in ambienti dove non te lo aspetteresti?  Le gastroscopie fatte sempre per ultimi, il dentista che tentenna e dichiara di non essere attrezzato… Il piano prevede, a partire dai medici di base, di tornare a fare formazione ai professionisti del settore socio-sanitario che a volte sembrano essere rimasti fermi a 30 anni fa.

Grande spazio è dedicato alle strategie che consentano un accesso ai test più capillare in modo da poter intercettare le persone inconsapevoli dell’avvenuta infezione. Analizzando come siamo messi rispetto agli obiettivi di UNAIDS, il più lontano è proprio quello di individuare almeno il 90% delle persone con HIV viventi in Italia e quindi su questo bisogna lavorare. Mi fa molto piacere che anche in questa sezione vi sia l’attenzione alla problematica dello stigma e del pregiudizio come una delle principali barriere per l’accesso al test: se penso che l’HIV sia dei tossici e omosessuali, cioè di qualcun altro, non mi porrò certo il problema. Ed inoltre il valore aggiunto è quello di individuare le associazioni come partner fondamentale per fornire servizi di counselling e testing  più accessibili e a “portata di mano”.

Viene toccato un tema che ho particolarmente a cuore, l’accesso al test anche per i minori senza consenso dei genitori: quando andiamo nelle scuole a fare percorsi di formazione, ci troviamo sempre in imbarazzo nel momento in cui, dopo aver “martellato” gli studenti sull’importanza di farsi un test quando si ha avuto un comportamento a rischio, poi dobbiamo comunicargli che loro non possono accedervi senza il consenso dei genitori. Certo che problema vuoi che abbia un’adolescente a chiedere a mammà una cosa del genere? Purtroppo per risolvere questa anomalia tutta italiana, il piano nazionale non può che sollecitare un cambiamento normativo, si deve ripensare la legge 135 del ‘90 che è stata una buona legge, ma che ora mostra alcuni limiti, dovuti soprattutto ai cambiamenti degli ultimi anni. Insomma, non è dietro l’angolo, ci vorrà il suo tempo e tutto dipenderà dalla volontà politica di intervenire in questo settore.

Grande spazio è dedicato agli aspetti di linkage e retention in care…paroloni per dire che bisogna metter particolare attenzione alla persona, sia nelle primissime fasi che durante il processo di cura. Le storie delle persone con HIV incontrate in questi anni nei nostri servizi ci dicono dell’importanza di partire bene: il momento della diagnosi è per tutti scioccante, ma chi riceve prontamente le informazioni corrette, soprattutto chi riceve attenzione e tempo, chi si sente accolto e non giudicato dagli operatori socio-sanitari che ti prendono in carico, ecco queste persone avranno un percorso più semplice, riusciranno  ad accettare prima la nuova situazione e quindi sapranno gestirla meglio, affrontando la vita con una maggiore serenità. Viceversa abbiamo incontrato diverse persone che non hanno avuto questo spazio di rielaborazione e anche dopo anni, non riescono ad affrontare con serenità la quotidianità, faticano a curarsi e vivono con il terrore che altri – a volte altri molto vicini – lo scoprano. In questo ambito, diventa importante il ruolo delle associazioni e dei progetti di ascolto come il nostro Spazio Positivo, nato proprio con queste premesse, con la consapevolezza della necessità di offrire spazi e tempi di ascolto, di accoglienza e di rielaborazione.

Insomma questo nuovo PNAIDS è proprio bello corposo, ma… come si legge in conclusione, per fare tutto ciò che il Piano prevede “si provvede nei limiti delle risorse umane, finanziarie e strumentali disponibili a legislazione vigente e comunque senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica”. Leggi: si devono ancora trovare le risorse!

Speriamo non diventi questo un pretesto per lasciare tutto o gran parte sulla carta. Speriamo che non ci si blocchi in attesa di indicazioni dai livelli superiori o di stanziamenti specifici. Sicuramente, le risorse sono necessarie per fare tutto quello indicato e proposto nel Piano, ma alcune azioni e strategie dipendono dal modo in cui facciamo le cose e gestiamo le risorse già disponibili, sia professionali che strutturali che finanziarie.

È anche questione di volontà. Rimettendo al centro dell’attenzione il tema HIV/AIDS e definendo alcune priorità siamo convinti che con ciò che si ha a disposizione nel qui ed ora, si possa fare diversamente e fare meglio. 

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