Covid 19: la riflessione continua…

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di Paolo Meli

A distanza di qualche settimana  dal precedente articolo con cui abbiamo cercato di commentare ciò che sta succedendo, proviamo a condividere qualche ulteriore considerazione, in ordine sparso e senza la pretesa di avere certezze ma più che altro dubbi e riflessioni aperte. 

Proveremo a farlo tenendo sullo sfondo il tema che da oltre 30 anni ci vede impegnati, quello del contrasto alla diffusione di un altro virus, quello dell’HIV, e della cura, non solo sanitaria, di chi ne è colpito. 

Una prima riflessione riguarda il ritardo con cui i sistemi sanitari dei paesi occidentali, compreso il nostro, si sono accorti della diffusione (prevedibile?) del virus tra la nostra popolazione. Servirà raccogliere ed analizzare con più calma i dati, ma sembra ormai stabilito che il virus circolasse da alcune settimane, prima del cosiddetto caso 1 di Codogno, anche in alcuni ospedali bergamaschi, ma che le indicazioni diagnostiche puntassero sulla categoria “cinesi” o “persone che erano state in Cina”, il che ha fatto trascurare i sintomi e l’applicazione tempestiva di misure di sicurezza e contenimento dell’infezione.  

In un certo qual modo, la stessa cosa continua a succedere rispetto al 60/70% del totale delle nuove diagnosi di HIV, circa 3500 l’anno in Italia, che scoprono di avere contratto l’infezione in grave ritardo, alcune già in fase di malattia conclamata, AIDS, quando possono essere passati anni dal contagio, perché alla persona stessa e a nessun medico è mai venuto in mente di fare/proporre il test per l’HIV in quanto la persona non corrisponde allo stereotipo di chi è a rischio di contrarre l’infezione. 

Forse ci si poteva attrezzare con modalità meno emergenziali, avviando la conversione di posti letto ospedalieri, preparando il personale sanitario e il territorio, reperendo per tempo mascherine e dispositivi di sicurezza?  

Il secondo aspetto discende da queste ultime considerazioni. Quanto l’organizzazione delle strutture sanitarie negli ultimi anni, soprattutto in Lombardia, è stata centrata sulle strutture ospedaliere, pubbliche e private, penalizzando la sanità di territorio 

Siamo tra chi guardò con molta preoccupazione alle varie riforme del sistema sanitario lombardo, tra cui l’ultima che affidava agli ospedali la gestione della sanità territoriale togliendola alle ATS. Per quanto riguarda HIV a Bergamo, significò per esempio, lo smantellamento dei 6 centri territoriali che offrivano il test anonimo e gratuito che, oggettivamente, evidenziavano un numero di accessi insufficienti, ma potevano essere potenziati e fatti conoscere, anche attraverso azioni di educazione alla salute e di prevenzione, non semplicemente chiusi e centralizzati nella struttura ospedaliera.

Prevenire è meglio che curare… si dice. Ma se non si programma ed investono risorse dedicate rischiano di rimanere slogan vuoti.

Chi, come la rete di Bergamo Fast-track city, cerca di fare prevenzione e promuovere il test deve inventarsi ogni anno il modo per stare in piedi e ricorrere alle intermittenti risorse di bandi da fondazioni o case farmaceutiche. 

Tornando a Covid 19, le persone che ne sono colpite sono molte più di quelle diagnosticate ufficialmente attraverso il tampone. In gran parte, restano presso la propria abitazione e devono fare quasi da soli, molti arrivano tardi all’ospedale e l’assistenza domiciliare è, ad ora, insufficiente mancando una struttura diffusa e in grado di convertirsi rapidamente ai nuovi bisogni.  Negli anni, sono nate innumerevoli cardiochirurgie, ortopedie e quant’altro abbia una resa economica più allettante, in gran parte accreditate alla sanità privata.  Decisamente sottodimensionate e insufficienti invece, per fare un altro esempio, le psichiatrie e le neuropsichiatrie sia in termini di posti letto ospedalieri che, soprattutto, di servizi di territorio a fianco delle famiglie in difficoltà permanente.   

Come già accennato, chi si occupa di prevenzione ed educazione alla salute deve lottare quotidianamente per reperire qualche “straccio di risorsa” e non può fare programmi a lungo periodo perché i decisori tecnico-politici guardano più al qui ed ora, a ciò che conviene o diventa necessario fare nel breve periodo, d’altra parte l’opinione pubblica sembra essere più sensibile  alle facili promesse che a seri discorsi di prospettiva, i cui risultati siano in là nel tempo.   

Qualche ulteriore riflessione sul ruolo del terzo settore.  

In un interessante articolo comparso sul periodico Vita, l’autore Stefano Zamagni afferma che in questa emergenza “due sole dimensioni hanno attratto la quasi totalità delle attenzioni da parte sia dei soggetti pubblici istituzionali sia della politica e degli stessi cittadini: la dimensione sanitaria e quella economico-finanziaria. Nessuno potrà mai negare che si tratti di dimensioni di centrale rilevanza, ma sono le sole che devono essere prese in considerazione?”. L’autore continua affermando che “nei tavoli o cabine di regia dove si andavano disegnando le strategie di intervento, questo mondo (quello sociale n.d.r.) non è stato invitato a dare il contributo di cui è altamente capace”. 

Finita l’emergenza, il terzo settore, che a sua volta sta subendo contraccolpi importanti anche dal punto di vista economico, probabilmente dovrà occuparsi di raccogliere i cocci che l’emergenza in sé e la crisi socioeconomica che ne seguirà provocherà nelle persone e famiglie più fragili.

Ci chiediamo se ci sarà analoga attenzione da parte dei decisori politici nonché mobilitazione e sostegno da parte della collettività alle azioni di tipo sociale. 

Un ultimo pensiero. Da questa esperienza, particolare perché ci tocca da vicino e tocca tutti, riusciremo a uscire più sensibili ai problemi di chi continuerà a soffrire vicino e, più ancora, lontano da noi? 

Un esempio, sempre legato al tema che abbiamo messo sullo sfondo, quello dell’HIV.  

Nel 2018, secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, sono morte quasi 800.000 persone  a causa dell’AIDS, di cui 100.000 bambini, in gran parte per un problema di accesso alle cure che non sono disponibili nei paesi poveri. Per una ormai “vecchia” malattia infettiva, per cui sono disponibili farmaci efficacissimi!

Continueremo a restare indifferenti?  

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