A cura di Caterina Pellegris

Ogni anno il Ministero della Salute predispone una Relazione sullo stato di attuazione delle strategie attivate per fronteggiare l’infezione da HIV (articolo 8, comma 3, legge 5 giugno 1990, n. 135) da presentare al Parlamento, nella quale vengono descritte le attività dello stesso Ministero, ma anche della Commissione nazionale per la lotta contro l’AIDS e dell’Istituto Superiore di Sanità, in tema di monitoraggio dell’infezione e di ricerca.
È stata presentata a fine febbraio la Relazione sulle attività del 2014, un documento di un centinaio di pagine, denso di dati e di progetti, attuati o ancora in corso, messi in campo dalle istituzioni centrali. In 30 anni molto è stato fatto, ma molto c’è ancora da fare come dice il Ministro Lorenzin, nella prefazione alla Relazione, dichiarando che
“la cura dell’AIDS e delle infezioni da HIV non si limita ai soli aspetti diagnostici, clinici e terapeutici, ma richiede altrettanta attenzione per l’implementazione di misure preventive. Tra le prime è fondamentale la diagnosi precoce, che si può ottenere solo attraverso una maggiore e soprattutto mirata offerta attiva del test, favorendone l’accessibilità, così come va favorito l’accesso ad una terapia precoce ed appropriata”.
Infatti, lungo tutta la Relazione emerge chiaramente uno dei nodi spinosi e centrali della lotta contro l’HIV: la scarsa percezione del rischio ed il conseguente mancato accesso al test.
Nel 2014, il 34,9% delle persone con una nuova diagnosi di infezione da HIV è stato diagnosticato con un numero di linfociti CD4 inferiore a 200 cell/μL (questo valore indica uno stato di immunocompromissione grave) e il 53,4% con un numero inferiore a 350 cell/μL . In alcune regioni italiane, in Umbria e nella Provincia Autonoma di Trento, è stato eseguito sistematicamente ad ogni soggetto di nuova diagnosi un test di Avidità anticorpale, che permette con una buona approssimazione di identificare le infezioni recenti: i risultati hanno evidenziato che, nel 2014, solo il 17,5% delle persone con una nuova diagnosi di infezione da HIV ha verosimilmente acquisito l’infezione nei 6 mesi precedenti la prima diagnosi di HIV.
Un altro dato che conferma questo trend si evince dall’analisi delle motivazioni che hanno spinto le persone di nuova diagnosi ad eseguire il test per l’HIV: solo il 21,6% ha preso la decisione di sottoporsi all’esame del sangue in seguito alla percezione di aver avuto un comportamento a rischio, mentre il 26,4% ha eseguito gli accertamenti solo perché è in presenza di sintomi HIV-correlati. La restante parte di persone esegue il test durante accertamenti per altra patologia o per controlli di routine legati ad altre situazioni, come ad esempio la gravidanza o la donazione del sangue.
Tutto ciò conferma che un numero sempre più rilevante di persone infette ignora per molti anni la propria situazione di infezione, non avendo percepito il rischio nei propri comportamenti e quindi non ponendosi mai il problema di fare un test. Nella relazione si evince che questo problema riguarda soprattutto coloro che hanno acquisito il virus con rapporti sessuali, in particolare eterosessuali.
Rimane dunque centrale il problema della percezione del rischio, che non crediamo possa essere attribuito alla scarsa conoscenza dei meccanismi di trasmissione del virus: i questionari che stiamo proponendo nell’ambito del progetto Osare la Speranza 2.0, soprattutto ai giovani tra i 15 e i 20 anni, ci dicono che, pur permanendo falsi miti e alcune informazioni errate su questa infezione, bene o male tutti conoscono i rischi della trasmissione sessuale.
Ciò che manca è la traduzione di questa informazione in termini di assunzione di responsabilità personale o, in altre parole, la consapevolezza che anche i propri comportamenti sessuali devono essere considerati a rischio se non protetti attraverso l’uso del preservativo o “garantiti” dalla reciproca e mantenuta fedeltà in una coppia dove entrambi sanno – e questa informazione è certa solo attraverso un test – di essere hiv-negativi.
Cosa sta dietro a questo mancato passaggio tra la conoscenza e la traduzione del sapere in atteggiamenti preventivi corretti?
Il silenzio certo non aiuta perché rischia di rafforzare la falsa sicurezza che l’HIV sia cosa passata: spesso ci siamo sentiti dire, durante incontri formativi, che “ormai non è più un problema, ci si cura e non ci si contagia più”.
Inoltre, è ancora radicata nell’opinione comune l’idea che esistano categorie “più a rischio”: comodo pregiudizio che permette di allontanare da sé il pericolo dell’HIV, relegandolo ad un problema di altri. Spesso chi arriva alla diagnosi tardiva di HIV, nello sconcerto più totale, si chiede dinanzi al personale sanitario come sia potuto succedere “a me che non mi sono mai drogato, non sono gay e non sono mai stato con una prostituta”… Su cosa si basano le proprie scelte preventive? Probabilmente sul “pregiudizio” che sia un problema di altri e ciò genera i comportamenti a rischio attraverso i quali ci si infetta, senza averne la più pallida percezione! E, senza averne percezione, ci si trasforma in persone rischiose per gli altri.
Attualmente, la maggior parte delle infezioni si deve proprio a questa inconsapevolezza, chi non sa di avere contratto l’HIV, se non lo scopre presto, non curandosi, non solo prima o poi arriverà ad una diagnosi di AIDS, ma può divenatre particolarmente infettivo, non tenendo sotto controllo il virus attraverso le terapie e non preoccupandosi particolarmente in caso di rapporti a rischio.
Siamo d’accordo col Ministro Lorenzin, troppo poco è stato fatto e molto resta ancora da fare in tema di rilancio delle politiche sulla prevenzione e ciò deve tradursi in azioni concrete e continuative atte a far aumentare la percezione del rischio e la necessità di sottoporsi al test.