Carcere e HIV: la storia di PG

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A cura di Giuseppe Pigolotti

Qual’è  la condizione delle persone con hiv in carcere oggi? Rispetto al passato numerosi sono i racconti drammatici di un ambiente particolarmente difficile. La storia che presentiamo riguarda chi ha vissuto questa esperienza ed evidenzia le fatiche, i pregiudizi  e, a tratti, il rischio che siano violati gli stessi diritti di cura.

“… Nonostante avessimo pianificato tutto da tempo e nei minimi particolari quel giorno sembrava dovesse andare tutto storto. Attendiamo il direttore in banca per quasi un’ora, ma dobbiamo accontentarci di quello che troviamo nelle casse. La gendarmeria si è messa subito sulle nostre tracce avvisando i carabinieri al di la del valico. Si è messo anche a nevicare nonostante sia solo ottobre e abbandoniamo l’auto blindata perché  inguidabile sulle strade innevate. Discesi in Italia, ci troviamo davanti ad un posto di blocco e senza nemmeno pensarci cerchiamo di forzarlo. Il conflitto a fuoco che ne segue lascia uno dei miei compagni a terra e me gravemente ferito e trasportato in ospedale per essere operato d’urgenza. Durante il ricovero vengo trasfuso e dopo sei mesi vengo trasferito in carcere al centro clinico di Pisa (vengono chiamate così le carceri con all’interno un presidio medico potenziato). Alcuni mesi dopo, anziché migliorare, le mie condizioni di salute peggiorano e vado addirittura in coma. Non riescono a spiegarsi il motivo del peggioramento ma dopo tutti gli esami del caso scoprono che sono sieropositivo”.

Comincia così il racconto di PG, la scoperta dell’infezione da HIV e la sua storia, una storia particolare perché vissuta all’interno del carcere e agli arresti domiciliari. Siamo nel 1985, l’HIV ha appena iniziato a far parlare di sé, le persone muoiono senza che medicine e ricerca scientifica riescano ad arginare l’epidemia.

“Quello che ho pensato, appena ho saputo di essere sieropositivo, era che il mio destino fosse segnato e fossi destinato a morire”.

“Al centro clinico, non sapevano come curarmi e mi davano antidolorifici e morfina a mia insaputa solo per trattare i sintomi della malattia. La mia fortuna è quella di avere una sorella medico che si accorge presto di come mi stanno curando e ottiene il mio trasferimento agli arresti domiciliari presso l’ospedale Niguarda di Milano, al reparto neurologia e malattie infettive, dove sono seguito a tutt’oggi. Qui inizio ad essere effettivamente curato per quello che ho e trovo dei medici che mi aiutano a prendere coscienza della malattia, a capire cos’è l’HIV e come conviverci, dandomi una speranza di vita”.

Dopo circa due anni trascorsi in ospedale, le condizioni di salute di PG migliorano, vengono revocati gli arresti domiciliari e c’è il rientro in carcere a Bergamo.

“Nel rientrare in carcere, mi rendo conto, pur nella sfortuna di quello che mi è capitato, di essere un privilegiato: mi resta comunque una famiglia che mi segue e che mi è vicina, cosa che tanti nella mia situazione non hanno; inoltre, nel mondo della malavita, sono una persona di una certa rilevanza e questo mi aiuta molto nell’inserirmi nella società del carcere dove i sieropositivi vengono discriminati dagli altri detenuti; nessuno li vuole in cella perché l’ignoranza sulla malattia e soprattutto sulle modalità di trasmissione fa sì che i detenuti abbiano paura che ci si possa contagiare semplicemente vivendo insieme in una cella. Purtroppo questa paura l’ho trovata anche nelle guardie carcerarie e in tutte le persone che in carcere lavorano. Per loro, i sieropositivi sono una patata bollente di cui non vogliono occuparsi”.

Sono anni in cui anche fuori, le persone con HIV subiscono forti discriminazioni e sono costrette ad un isolamento forzato. “Io, forte della mia posizione, ho sempre cercato di non subire passivamente la situazione, ho sempre lottato per avere i miei diritti e per questo sono stato trasferito di carcere in carcere. A Trento mi sento male, ma si rifiutano di portarmi in ospedale per una candidosi. Che alternativa ho? Mi barrico in cella e mi taglio le vene per ottenere il ricovero. Successivamente arriva la scarcerazione perchè vengo dichiarato in AIDS conclamata”.

In quegli anni non c’era alcuna legislazione per i malati di AIDS, che venivano trattati come detenuti comuni, senza alcuna cura particolare.

“Ho visto persone in AIDS conclamata venire scarcerati solo per morire a casa senza che ottenessero alcun trattamento particolare; venivano semplicemente spostati in infermeria e da qui sovente venivano scarcerati ormai in fin di vita”.

La situazione non migliora anche quando vengono fatte le prime scoperte sui farmaci e sulle cure per questa malattia e quando la legislazione cerca di porre rimedio al problema della gestione dell’infezione in carcere.

“Iniziano a girare le prime terapie anche in carcere e i detenuti che presentano complicanze per la malattia vengono mandati in alcune carceri con all’interno un Centro Clinico, dove dovrebbero essere seguiti meglio. Anche qui però non sempre le cose vanno per il meglio: ad esempio, a volte il detenuto deve cambiare terapia che prende nel carcere di invio per ragioni di disponibilità dei farmaci. Cambi il carcere, cambi la terapia con un rischio maggiore di sviluppare resistenze ai farmaci. Inoltre, ed è capitato anche a me, se non c’è posto nei centri clinici, vieni mantenuto con i detenuti comuni.

Se hai l’HIV non ti vuole nessuno perché vieni bollato come omosessuale o tossicodipendente e quindi resti in cella da solo o con altre persone con le tue stesse patologie creando così dei veri e propri ghetti all’interno del carcere”.

Una delle altre soluzioni che il legislatore aveva trovato per il problema era quello delle misure alternative: “Ad un certo punto la sieropositività sembrava essere incompatibile con il carcere, la pena veniva sospesa e differita perché si pensava che la vita per la persona sarebbe stata comunque breve, in quegli anni di AIDS si moriva nella maggior parte dei casi sia dentro che fuori dal carcere. Dopo la vicenda della banda di rapinatori di Torino, che usavano siringhe sporche di sangue per ottenere la refurtiva, forti della loro condizione di sieropositivi e quindi dell’impossibilità di essere incarcerati, la legge è stata ristretta ed ora solo chi ha una situazione sanitaria grave può essere scarcerato.

 Io ho sempre vissuto la malattia da “privilegiato”come ho detto, e continuando a lottare per i miei diritti, con l’aiuto della mia famiglia, ho ottenuto di scontare la pena in una casa alloggio per persone sieropositive. Non è stato semplice ottenere questa misura alternativa che mi permette di poter vivere in un luogo dove ho trovato la serenità e il supporto necessario a sostenere il percorso di cura che ho davanti. In carcere ho conosciuto tante persone HIV positive che non avendo le stesse mie possibilità stanno tutt’ora vivendo in un ambiente dove la paura del contagio e la disinformazione rispetto alla malattia sono ancora grandi. Di conseguenza, queste persone vivono discriminate sia dal resto della popolazione carceraria sia da chi dovrebbe prendersi cura di loro. In questa mia battaglia per vedere riconosciuti il diritto a delle cure adeguate, ad essere ascoltato e ad una condizione di vita dignitosa per me stesso, ma anche per tutti i detenuti sieropositivi, ritengo che si debba lavorare molto nelle carceri per portare informazioni e per abbattere tabù che tutt’oggi, a più di trent’anni dalla scoperta del virus, condizionano ancora la vita nel carcere. Chiudo con una poesia che descrive la mia esperienza di vita passata e futura, sfortunata da un lato ma fortunata dall’altro:

Tuttavia

“Forse un giorno sarò un onesto uomo

e di me stesso dar la parte migliore

Ma ….

Lunghe strade, lunghi giorni

D’albe e tramonti

D’albe e tramonti”

2 responses to “Carcere e HIV: la storia di PG

  1. Essere sieropositivo in carcere è come vivere un incubo dentro un altro incubo,essere discriminati in un ambiente così e’ devastante…

    1. Sì, nel contesto carcere si amplificano tutte le discriminazioni e le paure che fuori sono più nascoste e attenuate.

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