A cura di Caterina Pellegris
Il Dott. Rizzi, Direttore dell’Unità Operativa Malattie Infettive dell’Ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo nonché membro autorevole del comitato scientifico del nostro sito, è un interlocutore prezioso in tutti i ragionamenti dell’associazione su come rispondere ai bisogni delle persone con HIV. Abbiamo sempre trovato in lui spirito di collaborazione e sensibilità alle tematiche più sociali e psicologiche, che comunque sono strettamente connesse al successo terapeutico nel combattere un’infezione cronica come quella dell’HIV.
Da quanto tempo lavori nel reparto malattie infettive di Bergamo?
Sono a Bergamo dall’estate del 1987; prima, tra il 1982 ed il 1987, avevo frequentato come specializzando e borsista la Prima Divisione di Malattie Infettive dell’Ospedale Luigi Sacco di Milano.
La situazione è molto cambiata da allora, come sei sopravvissuto agli anni bui e come hai vissuto coi colleghi la svolta dei nuovi farmaci? in particolare, come è cambiato il rapporto con i pazienti?
Trent’anni sono tanti: la medicina è cambiata, le organizzazioni sanitarie sono cambiate, i ruoli professionali sono cambiati…
L’epidemia da HIV/AIDS è stato un momento importante in questi cambiamenti; nei primi anni ha imposto una riflessione sul significato e gli obiettivi delle cure, sull’assistenza domiciliare, sui bisogni psicologici e sociali, sull’assistenza domiciliare e sulle cure palliative, sulla terminalità e sulla morte, sulle associazioni di pazienti, i gruppi di auto-mutuo aiuto, il ruolo del volontariato e dell’integrazione pubblico/privato,… si è costruito un nuovo modo di fare medicina, e si è trovato un nuovo modo di essere medici ed infermieri.
Qualcuno (pochi tra medici) è scappato verso settori della medicina più tranquilli e convenzionali: paura del contagio, disagio a confronto con i temi della sessualità e della tossicodipendenza, fatica ad accettare tante morti….
Per chi è rimasto è stata un’avventura umana e professionale straordinaria; negli anni bui, quando abbiamo imparato a curare senza guarire; e più tardi, quando abbiamo iniziato, anno dopo anno, a scoprire nuove strade per guadagnare lentamente anni di vita e di benessere per i nostri pazienti.
Tra la fine degli anni ottanta e l’inizio degli anni novanta sono stato a più riprese nel Regno Unito, negli Stati Uniti, in Olanda,… non c’era ancora internet, i canali scientifici convenzionali erano molto lenti; le informazioni viaggiavano con noi, in pacchi di appunti, newsletter, incontri casuali e dibattiti improvvisati,… e ad ogni viaggio si faceva un passo avanti: un nuovo esame diagnostico, un nuovo farmaco, una nuova idea per organizzare l’assistenza.
Quando nella seconda metà degli anni novanta abbiamo avuto a disposizione farmaci antiretrovirali potenti è rapidamente cambiato tutto: e progressivamente la malattia da HIV/AIDS si è “normalizzata”: esami di laboratorio periodici, qualche capsula da assumere tutti i giorni, rari ricoveri ospedalieri; una gestione in larga parte ambulatoriale, relativamente semplice; e ovviamente il rapporto con i pazienti si è fatto meno intenso e drammatico; brevi incontri ambulatoriali, con persone che stanno relativamente bene.
Sei il direttore dell’unità operativa ora, come vanno le cose a Bergamo? come stanno i pazienti? quali sono i vostri punti di forza e le vostre criticità?
Le cose a Bergamo vanno bene, se consideriamo che in tutti questi anni, ed ancora oggi, siamo riusciti e riusciamo a “prendere in carico” tutti i pazienti della nostra grande provincia, senza esclusioni e senza liste d’attesa.
Bene, se pensiamo alle più di 2.700 persone in terapia antiretrovirale con risultati virologici ed immunologici ottimi nella gran parte dei casi.
Siamo un grande reparto; uno dei centri italiani con la maggior esperienza in tema di HIV; tanti studi sperimentali aperti, tanti farmaci innovativi disponibili…
Un po’ meno bene se pensiamo a tante esigenze che non riusciamo a soddisfare: brevi ed infrequenti visite ambulatoriali non consentono di rispondere ai bisogni di molti pazienti che richiederebbero tempo, attenzione, supporto psicologico, servizi sociali,…
Sono tempi di risorse limitate; e l’ospedale di Bergamo, con uno staff già “povero” rispetto ad altre realtà lombarde e nazionali anni addietro, ora fatica un poco; ci piacerebbe ampliare il tempo delle visite ambulatoriali, oggi veramente troppo compresse; ci piacerebbe ampliare l’offerta di assistenza psicologico e di servizi sociali… ma dobbiamo fare il conto con quanto abbiamo a disposizione.
Si potrebbe fare di più; non dobbiamo però scordare che per le persone con HIV l’investimento resta comunque molto elevato: a Bergamo spendiamo ogni anno più di 20 milioni di euro per i soli farmaci antiretrovirali!
Oggi senti di poter dire che la medicina e la ricerca stanno vincendo la sfida che l’HIV ha rappresentato sin dal suo esordio? quali sono le prospettive più interessanti sul fronte della ricerca?
La sfida è stata in larga misura vinta: oggi le persone con HIV possono vivere a lungo e bene, avere una vita attiva, una famiglia, dei figli,…: trent’anni fa questo sarebbe apparso un sogno.
Poi c’è l’altra grande vittoria: oggi nella gran parte dei casi la terapia azzera la viremia, e quindi terapia = prevenzione: una vita più serena per i partner sessuali delle persone con HIV, la possibilità di avere figli sani, e uno strumento formidabile per contenere la diffusione dell’epidemia.
Ma… e la “cura definitiva”? Non c’è; e non è dietro l’angolo. Nel corso degli anni si sono susseguite tante ipotesi e tante promesse; oggi l’espressone di moda è “cura funzionale”: l’idea sottostante a questo concetto è che una cura sufficientemente precoce ed aggressiva possa portare il nostro sistema immunitario a controllare stabilmente la replicazione di HIV, anche dopo la sospensione dei farmaci; è un’ipotesi interessante, con qualche dato preliminare a favore, ma è una strada ancora da esplorare. Quanto poi alla possibilità di eliminare definitivamente dall’organismo ogni traccia di HIV (ogni suo frammento genetico) è una prospettiva di studio e di ricerca, ma è difficile prevedere quando ci potranno essere ricadute pratiche.
E quindi resterà ancora per diversi anni la grande sfida della prevenzione: comportamenti sicuri per contenere la diffusione del virus: su questo, pur dopo molti anni di studi e di tentativi, molto resta da fare.
A fronte di tutta questa evoluzione scientifica, l’HIV resta forse l’unica malattia che non si può dire, pena il rischio di osservare negli occhi dell’altro paura, diffidenza o, nel peggiore dei casi una condanna. Perché secondo te fa ancora così paura l’idea di avere accanto una persona con l’HIV, al punto che anche in certi ambienti sanitari permangono prassi operative al limite dello stigma?
E’ una malattia contagiosa (anche se meno facilmente trasmissibile di tante altre malattie infettive), è cronica (chi ce l’ha se la tiene per tutta la vita, come una caratteristica propria, definitiva ed irreversibile), ed è tuttora associata all’idea di sesso (e nell’immaginario collettivo si pensa spesso: sesso promiscuo, omosessualità, prostituzione …), di tossicodipendenza, di marginalità sociale.
Hai sempre collaborato con le realtà del privato sociale, partecipando e dando il tuo contributo attivo ad una serie di iniziative, tra le quali la giornata mondiale dell’aids, il 1°dicembre. Quest’anno è stata particolarmente vissuta, dopo anni passati in sordina.
Il 1° dicembre 2015 è stato a Bergamo vivace ed intenso: se questo poi indichi una nuova consapevolezza e determinazione e la capacità di sviluppare nuovi progetti che “facciano la differenza” non so.
Per certo dall’interno dell’ospedale cerchiamo di tenere aperti tutti i canali di comunicazione possibili, e la collaborazione con le realtà del territorio e del privato sociale è consolidata; siamo ben consapevoli che la lotta contro l’AIDS non si può vincere solo tra le mura dell’ospedale.