Lo status della risposta all’HIV in Europa

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A cura di Paolo Meli

In questi giorni, lEuropean Centre for Disease Prevention and Control (ECDC) ha pubblicato lo Special Report sullo status della risposta all’HIV nei paesi del vecchio continente.

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Come ci si poteva aspettare, i dati confermano i nodi problematici di fondo anche in relazione agli impegni assunti con la Dichiarazione di Dublino del 2004 sul partenariato di lotta contro l’HIV/AIDS in Europa e in Asia centrale.

In generale, emerge come l’HIV rimanga in Europa un importante problema di salute pubblica

Secondo il Report, i casi di nuove infezioni registrati nel 2015 sono 29747, per un totale di circa 810000 persone infette (0,2% della popolazione adulta), con un tasso rimasto sostanzialmente immutato negli ultimi dieci anni, anche se la prevalenza è variabile ed è molto più alta in alcuni Paesi e gruppi. Nello stesso anno, tuttavia, una percentuale significativa di persone infette – almeno il 15% secondo i dati riferiti ai 31 Paesi dell’area UE/EEA – non sapeva di esserlo, mentre quasi la metà delle diagnosi – il 47% di quelle effettuate con la conta delle cellule CD4 (< 350 cellule/mm3) – è arrivata in ritardo.

Ciò rende di nuovo evidente che tra le strategie di intervento l’offerta del test e l’educazione al test debbano essere uno dei focus su cui concentrare strategie e risorse anche perché, come ripetutamente affermato, la consapevolezza dell’infezione e l’utilizzo corretto delle terapie abbattono notevolmente il rischio di trasmettere l’infezione ad altri.  

Occorrono dunque risorse ed iniziative che rendano il test più accessibile e, soprattutto, contribuiscano ad aumentare la percezione del rischio da parte di chi evidentemente rischia nei fatti ma sente lontano da sé la possibilità reale di contrarre l’infezione. Il pensiero di molti sembra essere “a me non capita” e quando ci si accorge che invece è capitato può essere tardi, possono essere state infettate altre persone ed è possibile, in non pochi casi, trovarsi improvvisamente in una situazione di malattia conclamata con tutto ciò che ne consegue.

Un numero crescente di nazioni offre le terapie a chi riceve la diagnosi precocemente, indipendentemente dalla conta dei CD4, ma ancora un paziente su sei non vi ha accesso immediato. Il sistema sanitario di alcuni paesi europei si basa ancora su prassi terapeutiche obsolete, non utilizza i farmaci di recente generazione e/o non ha risorse sufficienti a garantire l’accesso immediato alle terapie da cui, in diversi casi, sono esclusi gli stranieri irregolari.

Da questo punto di vista l’Italia è uno dei paesi che offre maggiori garanzie a tutti.

L’efficacia delle attuali terapie è attestata dal fatto che su dieci persone cui vengono somministrate, in quasi nove casi si assiste alla soppressione virale, anche se questa percentuale varia tra il 51% e il 95% nei diversi Paesi.

Rispetto alle modalità di trasmissione, quella sessuale risulta nettamente prevalente in tutte le nazioni citate dal Report, anche se si osservano delle variazioni significative tra le diverse nazioni.

Sono in aumento i casi tra i “maschi che fanno sesso con i maschi”, il dato del 2015 è del 42% dei casi. È un dato significativo che deve far riflettere rispetto al venir meno, almeno stando ai dati, di quella attenzione forte alla prevenzione che caratterizzò l’epidemia ai suoi esordi da parte di questo gruppo a rischio favorita anche dalla forte attivazione di organizzazioni ed associazioni.

Si rileva poi una sostanziale costanza del numero di diagnosi per rapporti eterosessuali, che si attesta attorno al 32% ma che rappresenta il numero maggiore di infezioni in un terzo delle nazioni europee. Altri dati mostrano una minor consapevolezza del rischio evidenziata anche dalla maggior tardività della diagnosi. In altre parole, sembra emergere tra gli eterosessuali una minor consapevolezza del rischio.

Nonostante il numero di nuove diagnosi causate da scambio di siringhe sia fortemente decresciuto, vi sono alcune nazioni dell’Est Europa in cui l’incidenza supera il 25%, dato che colpisce se si pensa che le strategie per ridurre tali rischi sono note e di efficacia ampiamente dimostrata. Il problema evidentemente è legato alla carenza di risorse e/o di politiche di prevenzione mirata oltre che, probabilmente, allo stigma sociale.

Tema delicato ma da affrontare, riguarda l’incidenza dell’infezione tra persone non nate nelle nazioni in cui viene effettuata la diagnosi, in parte comunque cittadini europei, in parte provenienti da nazioni, soprattutto africane, ad alta incidenza di infezione da HIV. Rispetto al totale delle nuove infezioni nel 2015, il 22% circa riguarderebbe persone di provenienza non europea (non EU/EEA). Va però evidenziato che alcuni dati mostrano come l’infezione avvenga in un numero crescente di casi quando queste persone giungono in Europa. È uno dei contesti più carenti di iniziative e risulta urgente studiare ed implementare strategie per il test, la prevenzione e la cura mirate a queste popolazioni.   

Per quanto riguarda i decessi, invece, il numero è sceso da 2608 nel 2006 a 885 nel 2015. Tale dato, ci risulta però particolarmente in difetto, se pensiamo che solo in Italia, il COA evidenzia un numero di decessi di persone con HIV pari a 654 nel 2013, ultimo anno in cui è disponibile un dato ufficiale. Ipotizziamo che in questo caso vi siano difficoltà nella raccolta dei dati.

La terapia, secondo i dati disponibili da 19 nazioni, è accessibile a meno del 70% delle persone con HIV, un dato decisamente ancora troppo basso rispetto all’obiettivo dichiarati da UNAIDS, pur con notevoli differenze tra nazione e nazione. La percezione è che non accedano alle terapie le persone più fragili, povere e discriminate.

L’evidente tallone d’Achille del sistema Europa, riguarda le politiche di prevenzione.

Se diamo uno sguardo ai dati disponibili – ha affermato Andrea AmmonActing Director dell’ECDC – possiamo vedere che l’Europa ha bisogno di migliorare la sua risposta all’HIV in diversi settori. Attualmente, due Paesi UE/EEA su tre non hanno infatti fondi sufficienti per fare interventi di prevenzione e su sette persone infette nella regione una non è consapevole di esserlo. Per ridurre il numero di nuove infezioni da HIV in Europa dobbiamo concentrare i nostri sforzi in tre aree principali:

dare priorità ai programmi di prevenzione, facilitando la diffusione dei test, per esempio con l’introduzione di nuovi approcci come quello dell’auto-test. E, ovviamente, facilitare l’accesso alle terapie”.

Premesso che riteniamo importante sviluppare strategie di prevenzione mirata ai diversi gruppi a rischio, come evidenzia il Report, riteniamo non si possa mai perdere di vista la promozione degli stili di vita sani tra le popolazioni giovanili, assieme ad interventi che promuovano il superamento dello stigma e dei pregiudizi. Questo ultimo aspetto non è minimamente citato nel documento di presentazione dei dai dell’ECDC. 

In generale, riteniamo che la miopia italiana nelle politiche di prevenzione, sembra accumunare gran parte dei paesi europei. Non c’è la capacità di ragionare nel medio-lungo periodo.

Si sa che un serio investimento in questa direzione avrebbe l’effetto immediato di aumentare i costi di cura, nella misura in cui fosse in grado di favorire l’emersione degli infetti inconsapevoli e di inserirli immediatamente nei programmi terapeutici. Si sa che investire in prevenzione e promozione della salute è un’azione i cui effetti sono difficilmente misurabili nel breve periodo, ma riteniamo che questo sia l’unico modo per raggiungere gli obiettivi previsti dai trattati internazionali e ridurre i costi futuri della cura, diversamente destinati ad aumentare costantemente e drenare gran parte delle risorse a disposizione.

Tra le nuove strategie la PrEP, profilassi post esposizione, è oggetto di particolare attenzione, non senza discussioni e controversie. A nostro parere, indiscutibilmente, la PrEP può costituire un’opportunità di riduzione del danno per gruppi di persone particolarmente a rischio. Resta da definire come possano essere individuati e selezionati tali gruppi e occorre evidenziare che questa strategia espone, d’altro canto, al rischio di contrarre tutte le altre infezioni sessualmente trasmissibili. Uno degli elementi di valutazione riguarda i costi. Un secondo aspetto, a nostro parere significativo, riguarda la definizione di priorità nell’allocazione degli investimenti, di per sé scarsi, per la prevenzione.

Il vero problema, torniamo a ribadire, ci pare quest’ultimo: due terzi delle 28 nazioni europee dell’indagine dichiarano che le risorse pubbliche disponibili per la prevenzione sono insufficienti!    

Una delle barriere tuttora presenti è individuato nello stigma sociale e nel pregiudizio: il 25% delle nazioni europee ha leggi che criminalizzano le persone con HIV!

Sorprendentemente, ma non troppo, l’indagine dimostra anche che nel 60% delle nazioni europee si individua nello stigma presso gli operatori sanitari uno degli ostacoli a politiche di prevenzione adeguate.

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