Tempi da Covid-19

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Di Paolo Meli

Nelle scorse settimane, abbiamo incontrato circa un migliaio di studenti delle scuole bergamasche nell’ambito del progetto #cHIVuoleconoscere. Più volte, ci siamo trovati ad usare l’esempio dell’“emergenza coronavirus” per evocare l’impatto sociale che il virus dell’HIV – infezione potenzialmente mortale e contagiosa anche se con caratteristiche molto diverse – aveva avuto tra gli anni 80 e 90, nel mondo. 

Insieme ai ragazzi, riflettevamo sul rischio che la paura ci portasse ad identificare tout-court qualcuno a cui attribuire la colpa, i cinesi, con il conseguente carico di stigma e pregiudizio verso l’altro, diverso da noi, innescando strategie di evitamento, se non veri e propri atteggiamenti di razzismo verso quel popolo che è sporco e mangia qualsiasi cosa. C’era chi già insinuava, in modo strumentale, che potevano esserci altri possibili “untori”, gli africani per esempio, perché “da loro non esiste un sistema sanitario efficace” per far sembrare assolutamente logico che si dovessero chiudere cieli e mari per proteggersi.    

Confessavamo la sensazione che “il peggio”, per quanto riguardava Coronavirus, dovesse ancora arrivare con gli inevitabili primi casi italiani.  Non immaginavamo che di lì a pochi giorni il percorso nelle scuole sarebbe stato interrotto a causa di Covid-19, come ci insegnano sia più corretto chiamare questo virus. 

Ogni epoca e ogni società sembrano avere un oscuro bisogno di una malattia che dia corpo ad ansie, paure, fobie collettive, e che sia possibile identificare con il Male.

La demonizzazione della malattia ha come prima conseguenza l’attribuzione di una colpa segreta al paziente. Alla fine degli anni 70, Susan Sontag sperimentò nella propria esperienza di malata che il cancro imprimeva una sorta di marchio su chi ne veniva colpito: era considerato la malattia “innominabile” degli sconfitti e dei depressi. Fu proprio per combattere quest’uso mortificante della Malattia come metafora che la Sontag scrisse il libro dallo stesso titolo, che ha avuto vasta eco non soltanto negli Stati Uniti. Ma, negli anni 80, ecco che una nuova malattia (o per meglio dire una situazione clinica che prelude a un vasto spettro di malattie tutte mortali) era venuta a sostituire il cancro come immagine di pestilenza contemporanea. La forza metaforica dell’Aids, sosteneva la Sontag, nasceva dall’aura misteriosa che la circondava e dal fatto che non si era ancora trovata una terapia adeguata. Dopo aver inquadrato la realtà clinica del fenomeno, la Sontag passava a studiare come esso venisse vissuto e rappresentato nell’immaginario collettivo. Spesso, nella storia, le malattie sono state intese come giudizio sulla collettività, e poi come punizione per una trasgressione individuale, soprattutto quando contagiose e trasmissibili. Esiste un rapporto diretto tra il concetto di malattia e il concetto di ciò che è straniero, quindi minaccioso e aggressivo: non a caso, si enfatizzava che il contagio dell’Aids arrivasse dal Terzo Mondo.

La paura dell’Aids rafforzò la cultura dell’individualismo e dell’isolamento, modificò mentalità e atteggiamenti, generò stigma e pregiudizi, distorse lo sguardo dai “comportamenti a rischio”, per enfatizzare il tema delle “categorie a rischio”.


Si parlava di peste del nuovo millennio, castigo divino. Quali “untori” più “rassicuranti”, nella misura in cui erano diversi da te, di tossicodipendenti, omosessuali o, comunque, persone trasgressive e poco raccomandabili? Evocativo, a tal proposito, il noto spot ministeriale che rappresentava la persona con AIDS, sarebbe stato più corretto dire con HIV, come circondata da un alone viola. Dentro la vicenda dell’AIDS, entravano in gioco temi complessi che concernono l’affettività, la sessualità e le relazioni interpersonali più in generale. E il confronto, quasi un inaccettabile tabù per la progredita società moderna, con il limite, rappresentato dalla sofferenza e dalla morte.    

Dopo 40 anni, siamo ancora nelle scuole – volentieri perché lavorare coi ragazzi è sempre un’esperienza che restituisce fiducia nel futuro – per spiegare cos’è HIV e come si evita il virus senza la necessità di evitare le persone. Perché ancora oggi, dopo 40 anni, molti di quelli che vivono con HIV, si trovano a fare i conti con lo stigma, a partire dal proprio, e i pregiudizi. Basti pensare a quanto è difficile dire agli altri, persino i propri familiari ed amici, di avere contratto questa infezione. Dopo 40 anni, ancora proviamo a trarre dalla vicenda dell’HIV qualche insegnamento, convinti che la nostra società non abbia rielaborato a sufficienza quella vicenda e cerchiamo di farlo a partire dalle giovani generazioni.  

Ma oggi è Covid-19 ad occupare totalmente la scena, perché ha invaso improvvisamente la nostra quotidianità e le nostre abitudini. E gli altri siamo improvvisamente diventati noi: quelli da evitare, limitare e rispedire a “casa loro”. Siamo noi, italiani, in particolare, quelli del nord Italia. Ironia della sorte, il primo caso registrato in Nigeria riguarda un bergamasco, lì per motivi di lavoro. E subito messo in isolamento!  

Gli altri, quelli nei cui panni normalmente è così difficile mettersi, le cui motivazioni sono così difficili da capire, siamo un po’ diventati anche noi. Un noi che è difficile accusare di qualche comportamento inadeguato. Ci sono tutti, persino sindaci, preti, consiglieri regionali…  

E, giustamente, protestiamo e ci ribelliamo ad atteggiamenti che riteniamo sproporzionati e ingiusti messi in atto da altri loro in altre parti del mondo. 

È difficile capire se questa volta – superata l’emergenza che sarà comunque decisamente più breve di quella nata con HIV – ne trarremo qualcosa di buono, come individui e come società, in un’epoca in cui, tra le altre cose, la comunicazione è completamente cambiata e, accanto ai tradizionali mezzi di informazione, web e social la fanno da padroni.

Ci siamo chiesti che impatto avrebbe l’AIDS oggi, in epoca social.  

Di certo, guardiamo con una certa preoccupazione all’overdose informativa, che chiama direttamente in gioco le responsabilità dei mezzi di informazione quando amplificano le paure e distorcono la percezione della realtà, dimenticandosi, o quasi, di altri gravi drammi umanitari che non toccano direttamente il mondo occidentale. Viene di conseguenza la pletora di uomini di scienza, o pseudo tali, che trascorrono più tempo sul video come “esperti” e “tuttologi” che nei laboratori o luoghi di studio e di cura.  Non ci stupisce una politica che non evita strumentalizzazioni e strategie di consenso, nemmeno in questo momento. D’altra parte, siamo quelli delle piazze virtuali dove chiunque si erge ad esperto e giudice, e corriamo a fare incetta di generi alimentari e prodotti per l’igiene, come se non ci fosse un domani e senza troppe preoccupazioni per chi arriva tardi… quelli rappresentano un noi forse un po’ troppo allargato, ce n’è sempre qualcuno più vicino e meritevole, il nostro gruppo, la nostra famiglia, i miei figli, io…   

Accanto a ciò, c’è anche grande stima per medici e personale sanitario, in prima linea con competenza, generosità e abnegazione. Comprensione per il delicato ruolo dei decisori politici, di certo non invidiabile in questo momento. Fiducia in chi cerca di informare con equilibrio e attenzione non solo all’audience. 

C’è di che riflettere…   

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